È accaduto che il lockdown mi ha dato risposte che da tempo cercavo. Risposte su di me. Passare tutto quel tempo a casa dei miei genitori, la casa che è stata mia per trent’anni, mi ha permesso di mettere il naso, gli occhi e le mani tra tutti quei ricordi che raccontano di una me diversa. Il bello di tornare in un luogo che ti appartiene è saper riconoscere i nascondigli segreti delle foto, dei vestiti di te bambina, delle cartoline e delle lettere che mamma ha conservato. Ci sono cassetti che custodiscono la mia infanzia, ci sono specchi che si ribaltano e rivelano scatole con dentro pezzi di vita passata. Ecco, il coronavirus mi ha dato il tempo di avventurarmi nel luogo che era mio. Mi ha dato il tempo di prendere una scala e arrampicarmi fino alla soffitta di legno per tirare giù abiti da sposa, pantaloni a zampa, un vestito da carnevale cucito a mano da mamma e la mia bambola preferita che indossava lo stesso identico vestito.
Così un pomeriggio, tra fogli e foto accatastati nel mobile di legno bianco della mia stanzetta, è saltata fuori la sfera di vetro con la neve. Una delle tante che il mio ex fidanzato, secoli fa, amava regalarmi. L’ho rovesciata due o tre volte e sono stata lì ad osservare le piccole palline bianche cadere. C’è stato un momento, c’è per tutti, in cui volevo solo scappare via dal resto del mondo. Via da quel guscio. Avevo vent’anni, forse anche meno, e sognavo di infilare un jeans e una maglia rossa e andarmene via per scoprire quello che c’era fuori, fuori da quel fidanzamento avvenuto troppo presto, fuori da Taranto, fuori dall’Italia. Avevo anche scritto un breve racconto su questo, un racconto di evasione. Così mi sono messa di nuovo alla ricerca dei miei fogli sparsi per casa e l’ho trovato. Il racconto della fuga. Adesso sono a Verona, di nuovo con la mia famiglia, i bimbi e Mario.
In questo preciso momento dormono tutti. Ho tirato su il lenzuolo sulle gambe di Sofia e ho spento la luce nella stanza di Bruno. Mario sta lì accanto a lui. Si sono addormentati insieme. Sto pensando. Mentre mi accendo una sigaretta sul balconcino e tiro via le foglie morte dalla pianta di basilico, ripenso a quel racconto. Piove. Devo chiudere bene le finestre altrimenti l’acqua entrerà dagli infissi troppo vecchi. Ecco, sto pensando che non voglio più scappare. Sto pensando a quanto invece vorrei rinchiudere noi quattro in una sfera di vetro e starmene lì a sentirmi protetta. Ho bisogno di sentirmi al sicuro. E mi sento al sicuro solo se noi siamo insieme e il mondo lì fuori non può più farci del male. Ora metto i panni nell’asciugatrice e vado a nanna. Cioè, ho un’asciugatrice! Cosa impensabile a Taranto. Siamo essere mutanti e mutevoli.
Notte a tutti e …vi lascio il racconto dell’altra me, vi può essere utile se siete nella fase del fuggitivo.
Racconto
-Che cosa ti fa pensare che non mi piaccia stare qui? – Chiese Anna a Marco mentre si sfilava i pattini da ghiaccio stando attenta a non sfiorare la lama
-Be’ non lo so- disse lui, con quell’aria timida di chi sa che in una domanda ha svelato troppo dei suoi timori. -É che negli ultimi giorni sembri diversa- Ecco, lo aveva fatto, ora era nudo e lei avrebbe potuto coprirlo o lasciarlo lì al freddo per sempre.
Anna invece non rispose, gli diede la mano e con le guance rosse dal freddo, il cappello rosso di lana e la sciarpa bianca lo trascinò verso la pasticceria appena fuori dalla pista. Marco era in attesa di qualcosa, qualcosa che gli avrebbe fatto male, ma lei sorrideva. Poi lei ordinò una cioccolata calda e voltandosi verso di lui con gli occhi troppo grandi, occhi di chi sta violando le regole, chiese a Marco di assaggiare qualcosa di nuovo.
Marco si irrigidì. Per la seconda volta in una settimana lei usciva dagli schemi. Una cioccolata calda, no, non l’avevano mai bevuta, mai ordinata. Loro pattinavano e poi andavano per mano in pasticceria a prendere una fetta di crostata, da sempre. E da sempre arrivavano alla pista con un trenino azzurro. Eppure lei due giorni prima aveva desiderato andarci in moto.
-Non ti piace stare qui? – disse lui mentre la ragazza della pasticceria sfornava crostate.
-Cosa te lo fa pensare?- rispose ancora lei. Una domanda per una domanda non era una risposta.
Tutto, avrebbe voluto dirle. Tutto quello che desideri da un po’, tutto quello che qui non c’è. Che io non posso darti. Pensò. Ma tacque. Stava arrivando la nevicata, la stessa, e sempre allo stesso orario, dopo la crostata arrivava la neve, soffice, e loro diventavano bianchi e correvano per la stradina verde fino alla piccola casa con il mulino.
-Aspettiamo- disse lei.- non torniamo, voglio scoprire cosa accade dopo la neve-
-che andiamo a casa- disse lui-
-Allora prendiamo un’altra strada- sorrise Anna
-Non c’è un’altra strada, non c’è mai stata- bisbigliò Marco.
-Facciamola noi un’altra strada-implorò Anna mentre lo teneva ancora per mano
Ma Marco aveva compreso. Giusto in tempo per proteggersi da quella agonia. Sfilò la sua mano dal guanto caldo di lei e corse sulla strada verde. Allora il cielo andò in frantumi. La neve si sparpagliò al suolo, la pista si staccò dalla base e il trenino perse i binari.
Giulia raccolse quel che restava della sfera natalizia con il carrilon. Raccolse i vetri, la neve, il treno, la pista e la pasticceria con le minuscole crostate, e poi con dolcezza ripose i due personaggi che abitavano lì dentro in un cassetto.
-Io non posso essere la stessa per sempre- disse piangendo-continui a regalarmi carillon come se fossi una bambina, ma non lo sono più-
Di spalle davanti alla finestra tra le tende lilla mosse dal vento lui impietriva.
E alla stessa ora come ogni sera, cadde la neve.